Giovanni Battista va all’Acea

Raffaela Rondini

Tra le varie attività in cartellone la scorsa estate nella capitale italiana, ho avuto il piacere di fare la fila una mattina di luglio davanti alle porte chiuse degli uffici dell’Acea, azienda romana che eroga luce, acqua, gas e una serie di problemi irrisolvibili on-line.

Prima delle 8:30, orario di accesso al pubblico, si può semplicemente stare in fila fuori ad aspettare che aprano gli sportelli e conversare gratuitamente con tanti romani e laziali che si sono svegliati apposta troppo presto e dare un’occhiata alla Piramide Cestia, segno di una Roma grandiosa e prepotente ed al vicino cimitero acattolico che ospita le tombe di illustri intellettuali.

È questo un luogo come tanti dove si potrebbe cercare di capire come e se ci possa essere una soluzione non solo ai propri problemi con l’Acea, oggi peraltro moderna ed efficiente, ma più in generale alla situazione dell’Italia.

Quella mattina ero arrivata alle 8:05 per essere sicura di essere fra i primi, non tanto a risolvere la questione italiana quanto, lo confesso, le mie personali bagattelle.

Il mio stesso pensiero lo aveva avuto quel giorno rovente d’estate un anziano pensionato che abitava non lontano dai famosi uffici dell’energia romana della Piramide Cestia.

Non lo conoscevo, ma mi ispirò subito affetto. Aveva un vestito chiaro di sartoria, due occhi azzurri fiammanti e l’andatura di chi aveva già camminato parecchio, ma non ci faceva caso. Gli dissi che sarebbe potuto andare tranquillamente a sedersi sul muretto basso lì vicino, ché gli avremmo certamente tenuto il posto, ché non era assolutamente necessario che aspettasse in piedi, e lui rispose che grazie, non c’era bisogno e che i problemi sono ben altri.

Era il classico inizio di conversazione di chi sta in fila agli uffici pubblici, o alla fermata di un autobus che non arriva e che poi inizia a parlare.

Io alle 8 della mattina avrei saputo anche tacere, ma questo uomo era simpatico.

Sono nata a Roma e quella non era certo la mia prima fila, ma erano passati ormai anni dall’ultima attesa assieme ai miei concittadini e allora  presi l’aspettare di quella mattina con la struggente nostalgia di un emigrato che lascia la propria terra e che quando torna e la ritrova sempre diversa avrebbe invece un disperato desiderio di vedere che il tempo non è passato, che non è cambiato niente e che i suoi ricordi mitizzati dalla lontananza corrispondano al vero.

Insomma presi quella coda di luglio all’Acea come un abbraccio confortante, come un caloroso benvenuto a casa.

La città eterna, pur avendo certamente più difetti che pregi continua ad essere meravigliosamente unica anche perché mentre ti fa appunto eternamente aspettare sa farti anche al contempo sempre conoscere altra gente che vive la tua stessa condizione e così ti rende il tempo magicamente non solo relativo, ma corale.

L’attesa può trasformarsi a Roma talvolta in grande gioia o addirittura in epifania, cioè in rivelazione improvvisa e competa di un mistero.

Una mattina di questa estate 2018 il problema della lettura del contatore dell’acqua del mio monolocale ai Castelli Romani per esempio scomparve improvvisamente quando il distinto signore che era accanto a me disse in tono solenne che l’Italia così non andava bene e che non avrebbe saputo come sarebbe andata a finire.

Perbacco! Mi sembrò per un colpo di fare un tuffo nel passato e di aver ritrovato di nuovo qualcuno con la mente lucida ed il tono sicuro.

Lo guardai sorpresa. Saranno forse i vecchi pre-repubblicani a salvare l’Italia, quelli che non hanno più neanche un dente da perdere e che hanno ritrovato la purezza infantile?

Davanti a questo gagliardo dai capelli bianchi dissi quello che penso di non aver mai pubblicamente né detto né pensato, ma che mi uscì quella mattina spaventosamente spontaneo e vero.

Dissi con nonchalance che gli Italiani non sanno autodeterminarsi politicamente e che sono condannati alla fatalità di un governo autoritario che li obblighi ad adeguati comportamenti.

Mentre lo dicevo pensavo che sarebbe stato meglio tacere. Se un’ esternazione così qualunquista fosse arrivata alle orecchie di qualche imbecille in circolazione avrebbe potuto prenderla addirittura come una legittimazione a fare un colpo di stato.

Una frase del genere non era da me, avrei dovuto vergognarmi e correre a nascondermi sotto un tombino appunto dell’Acea.

Perché non lo feci?

Per non perdere il posto in fila, probabilmente.

Quando il vetusto ribelle apprese che vivevo in Germania, prese un grosso respiro e si caricò per dire qualcosa.

Ebbi a quel punto il terrore che la coda intera mi linciasse ed invece tutti restarono al proprio conquistato posto.

Il vecchio raccolse un piglio retorico pacato, ma autorevole.

Fece una lunga premessa sul suo passato di unico scolaro antifascista della sua classe, sul suo parente eroe di guerra in Russia e poi martire partigiano, sul duro rigore dei soldati tedeschi durante l’occupazione di Roma quindi arrivò ad una sorta di elogio di Mussolini.

Ora, tutto mi sarei aspettata da quella calda mattina d’estate, fuorché di ascoltare un antifascista lodare con sicura ed elegante retorica il Duce.

Di anziani che dopo lunghe attese alla fermata dell’autobus o del treno sbottavano si stava meglio quando si stava peggio, ironico o talvolta persino serio, che alludevano al ventennio fascista ne avevo sentiti parecchi in tutta la mia infanzia, ma erano state sempre grida disarticolate di popolo incolto.

Ora che quella generazione è quasi tutta morta, o se c’è qualche sopravvissuto non si trova più alle fermate dell’autobus, ma nella migliore ipotesi a casa sua con un badante perché diavolo era venuto in mente a me quella mattina di dare il via a questo genere di conversazione infelice?

Questo anziano signore che era davanti agli uffici della società che eroga luce acqua e gas meritava però attenzione: voleva spiegare, raccontare, insegnare a chi non c’era come un nonno con i nipoti e io lo stetti con rispetto ed interesse a sentire. La gente attorno cominciò anche a tendere l’orecchio e smise di guardare l’orologio. Un nonno lucido e colto è certamente un patrimonio dell’umanità.

Gli chiesi come si chiamasse e mi rispose con nome e cognome: Giovanni Battista A. e aggiunse che aveva visto di tutto nelle varie repubbliche italiane dal Dopoguerra ad oggi che la figura del Duce era da ammirare come esempio di onestà e di operosità.

Guardai l’orologio. Erano solo le 8:15.

Tanto si poteva contestare a Benito Mussolini –  queste le parole del canuto oratore –  fuorché non fosse stato onesto e non abbia lavorato con grande energia al progresso economico dell’Italia.

Lo sa che il suo ardore per il popolo – si scaldò il partigiano – lo portò a sdegnare ogni ricompensa per il suo lavoro politico e non avendo accettato uno stipendio come uomo politico, lo Stato Italiano del Dopoguerra non volle riconoscere alla vedova Donna Rachele la pensione di reversibilità perché il defunto marito non aveva un reddito al quale riferirsi?

Lo guardai incredula. E il vecchio antifascista proseguì:

Solo dopo una lunga causa la vedova si vide una pensione assegnata in virtù del salario del Duce come giornalista e maestro. Ha capito? Lo so per certo perché gli avvocati che sostennero Rachele nella causa erano miei stretti parenti, anch’essi antifascisti. Ha capito?

Lo rassicurai che avevo capito. Avevo capito benissimo che non era il caldo o l’avanzata età che faceva ad un antifascista tessere le lodi di Benito Mussolini.

Avevo capito che quest’uomo che aspettava di entrare all’Acea con un mazzetto di bollette strette in pugno aveva voglia di  paragonare la moralità di un tempo alla bassezza del nostro ed in questo non potevo che dargli ragione. Quando mi parlò delle grandi e solide opere erette nel Ventennio, delle bonifiche fondiarie e della riforma scolastica gli diedi anche ragione.

Il tempo stringeva e l’oratore lasciò allora alle 8:20 perdere Mussolini e saltò improvvisamente ancora indietro negli anni.

Arrivò all’articolo 50 dello Statuto Albertino del 1848, cioè non solo prima della Repubblica e prima del Fascismo, ma prima ancora dell’unità d’Italia, che diceva che gli onorevoli non dovevano percepire alcun compenso per l’attività politica svolta e che quando l’onorevole Crispi chiese che venisse almeno rimborsato il biglietto del treno per andare a Torino, si negò il rimborso motivandolo con le parole rimaste celebri che servire la Patria era da considerarsi un onore.

Su queste parole si aprirono puntuali alle 8:30 un giorno di luglio del 2018 le porte dell’Acea e il vecchio non accettò di passare avanti quando i compagni di fila che stavano avanti si fecero da parte per cedergli il posto, ma aspettò pacato il proprio turno.

6 anni fa