Per quanto spiacevole possa essere siamo costretti a ricordare che non solo fra i forzuti Germani, ma anche nella tanto mitizzata epoca d’oro dell’antica Roma, la cui bellezza e grandezza vediamo ancora nei reperti delle sale dell’Isola dei Musei, regnava un ordine militare tanto che l’anno iniziava proprio a marzo, mese dedicato a Marte, dio della Guerra.
Solo verso la fine della Repubblica, il mese di gennaio entrò come primo mese dell’anno a sostituire marzo.
Gennaio prendeva comunque il suo nome da Giano Bifronte, dio degli ingressi, che veniva invocato all’inizio ed alla fine di una guerra. Quando iniziava un conflitto venivano aperti gli usci del tempio di Giano, ad invocare protezione ed alla fine della guerra le porte poi si richiudevano. Gli accessi al tempio restarono a Roma praticamente aperti per secoli, dalle lotte di difesa contro i vicini a quelle per la conquista della penisola prima, e del mondo poi.
L’aggressività distruttrice, dunque, è un concetto antico, ma quanto antico?
La sala numero 306, al terzo piano del Neues Museum ci fornisce una risposta pronta a questa domanda.
Pare che la guerra sia iniziata con l’età del bronzo, circa 4500 anni fa.
Quando l’uomo iniziò a lavorare i metalli si organizzò in strutture sociali e politiche con delle élite che controllavano lo sfruttamento delle miniere ed organizzavano il lavoro ed i rapporti commerciali fra gli accampamenti. Proprio la lotta per aggiudicarsi i terreni più ricchi di giacimenti portò ai primi scontri fra clan.
Le successive età del rame e dello stagno non fecero altro che diversificare ancora i gruppi e le stratificazioni sociali ed accentuare i contrasti.
E’ interessante notare come le guerre abbiano sempre due modalità temporali diverse e parallele. Se da un lato esse inconfutabilmente scoppiano, dall’altro si preparano queste ultime anche lentamente come un basso continuo di instabilità che via via cresce puntando alla catastrofe.
Dopo ogni guerra si constata poi puntualmente con desolazione che le devastazioni hanno causato un solco netto fra il tempo prima e quello dopo di ognuna di esse ed i sopravvissuti ad un conflitto portano sempre per il resto dei loro giorni ferite profondissime quando non direttamente sul corpo, certamente nell’anima. Le guerre sono quindi per certi aspetti tutte distruttivamente simili, ma per altri ognuna ha i suoi terribili tratti distintivi. Difficile quantificare tutti i conflitti dell’umanità, la stessa Norna Urd s’incupisce ogni volta che le si porge la questione e scuote il capo sconsolata pronunciando nella sua antica lingua la solita litania: rabbia, vendetta, sangue e dolore, perdita… e quando si tenta di incalzarla con domande più circostanziate, Urd insiste: rabbia, vendetta, sangue e dolore, perdita…
Un quadro carico di sangue e vorticoso vuoto cosmico a rappresentazione sintetica e metafisica di tutte le guerre lo troviamo al terzo piano della Alte Nationalgalerie, dipinto nel 1849 da Carl Rottmann e chiamato Schlachtfeld bei Marathon, il Campo di battaglia di Maratona. Il nome evoca il celebre scontro dell’antichità fra Greci e Persiani, ma il contesto è assolutamente atemporale. Non si vedono riferimenti storici alcuni e neppure uomini, ma solo un gran rosa e grigio, un cumulo di luce e nimbi, strati di terra che sembra bagnata di sangue, squarci di cielo sereno in un orizzonte scuro e di pioggia e mare, cielo e sangue che sembrano avvolgersi insieme. Questo quadro fu dipinto dopo i moti popolari del 1848 che non risparmiarono neppure Berlino.
L’Isola dei Musei conobbe poi ancora le guerre della seconda metà del XIX° secolo che portarono alla soddisfatta proclamazione dello Stato Tedesco nel 1871 e le due Guerre Mondiali.
La Prima Guerra Mondiale si annovera fra i momenti bellicamente più trancianti del nostro mondo perché fu quella la prima volta nella storia dell’umanità in cui così tante nazioni si trovarono a combattere simultaneamente le une contro le altre, stringendo alleanze fra di loro e disponendosi su due grandi schieramenti. Fu quello un evento di spaventosa portata causato anche dello sviluppo dell’industria che portava nuovi potenti mezzi di distruzione e delle nuove strategie militari. Milioni di giovani soldati soffrirono per anni nelle trincee e l’immensa carneficina unita all’orrore del dolore vissuto lasciarono un’umanità particolarmente segnata.
Sulla nostra isola erano quegli gli anni in cui si tentava faticosamente di tirar su per la seconda volta il Pergamon Museum.
Nelle sale della Alte Nationalgalerie vengono talvolta in visita da altri musei berlinesi quali la Neue Nationalgalerie o il Brücke Museum tele di espressionistici volti sconvolti, angosciati, spaventati, dagli occhi sgranati ed iniettati di sangue e la fronte corrucciata come l’Autoritratto di Ludwig Meidner del 1915, o come l’Autoritratto con ragazza di Ernst Ludwig Kirchner, ancora del 1914/15, dove il pittore ha un volto spigoloso che guarda fuori dal quadro e la ragazza dietro ha il viso lungo e triste e guarda altrove. E’ un dolore così nuovo quello dei quadri dipinti dopo il primo conflitto mondiale tanto da poterli datare da lontano con estrema certezza, senza bisogno di andare a leggere le targhette con le date a fianco ogni volta.
Dopo la prima guerra mondiale venne qualcosa di ancora più spaventoso.
Che non sarebbe stato un tempo piacevole i berlinesi lo intuirono certamente da quando i nazisti presero a strappare alberi e cespugli dall’ameno Lustgarten e a gettare cemento sulla grande piazza per poterla usare per comizi e parate che avrebbero ospitato decine di migliaia di fedeli, mentre la meravigliosa scalinata classica di Schinkel si sarebbe prestata a pulpito di propaganda.
I nazisti iniziarono quindi a reprimere ferocemente gli artisti non allineati e gli ebrei, prima con le parole e poi raccogliendo dai musei tutte le opere cosiddette degenerate per esporle nella celebre mostra del luglio 1937 Entartete Kunst, Arte Degenerata.
Si istituì una vera e propria commissione incaricata di raccogliere tutte le opere che non facevano onore alla razza tedesca per allestire una galleria separata per stranieri ed ebrei.
La pulizia delle gallerie è terminata, così riferiva nel marzo del 1938 Franz Hofmann, direttore del dipartimento di arti figurative presso il Ministero per la Propaganda al Ministro della Propaganda Joseph Goebbels.
Quello che in italiano viene tradotto riassuntivamente con Ministero per la Propaganda si chiamava in realtà scrupolosamente in tedesco RMVP ovvero Reichsministerium für Volksaufklärung und Propaganda, laddove Volksaufklärung starebbe letteralmente per illuminazione del popolo.
I fascisti italiani, per inciso, facevano intanto eco rielaborando nel 1937 il Ministero per la Stampa e la Propaganda, creato solo due anni prima, nell’ambizioso Ministero della Cultura Popolare, grottescamente notoriamente abbreviato in Min.Cult.Pop.
Il numero esatto delle opere epurate sull’isola e altrove non si è mai saputo. La propaganda parlava di 12.000 opere, cifra probabilmente esagerata, ma sicuramente sono spariti almeno 700 pezzi di grande valore internazionale, svenduti a musei ed a collezionisti di tutto il mondo.
Il 30 giugno del 1939 si tenne, per esempio un’asta al Grand Hotel di Ginevra dove vennero portati 60 tra dipinti e statue di autori moderni tanto disprezzati pubblicamente dal regime quanto poi offerti privatamente come capolavori. Gli scaltri acquirenti si erano comunque tra l’altro accordati fra loro per offrire pochissimo in modo da limitare al minimo il guadagno dei nazisti. Pare che Göring stesso si premurò in quei mesi di vendere tre Van Gogh, Coppia del 1888, Il pittore nel campo di grano del 1889, e Il Giardino di Daubigny del 1890 ad un banchiere tedesco, il quale passò il quadro del giardino ad un collezionista di Amsterdam e poi il dipinto spuntò a New York dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Una legge del 31 maggio del 1938 stabilì che delle opere degenerate il regime poteva disporre a piacimento ed essendo proprio i dirigenti nazisti stessi anche fini collezionisti di arte degenerata, essi appesero celebri quadri impressionisti ed espressionisti nei propri studi ed accanto ad alcuni di essi si fecero addirittura spavaldamente fotografare. Curioso fu il fatto che, terminata la guerra gli Alleati si dimenticarono di rimuovere tempestivamente la legge e così molti pezzi vennero misteriosamente inghiottiti dal mercato facendo perdere le proprie tracce. A volte riemersero in Svizzera, in Olanda, a New York, a Mosca…
Le opere non degenerate che nel 1939 rimanevano di diritto nei cinque musei si andavano frettolosamente preparando alla guerra, con sacchi di sabbia vicino alle finestre ed accanto alle colonne dei templi ricostruiti, mentre statue e dipinti si precipitavano a rintanarsi in bunker, miniere, banche e cantine ed i mecenati e curatori dei musei di religione ebraica venivano allontanati.
Quando l’ultima guerra scoppiò il più giovane dei musei, il Pergamon, aveva solo nove anni.
Sebbene le opere riuscirono a starsene più nascoste dei civili, questo non bastò a salvarle tutte. Anche le statue che avevano già vissuto devastazioni e terremoti non immaginavano lontanamente la violenza di quest’ultimo conflitto. Se nel 1800 gli studiosi avevano dissotterrato con cura, amore e pazienza milioni di oggetti dalle viscere della terra ed avevano poi per decenni ricostruito meticolosamente puzzle giganteschi, offrendo al mondo l’emozionante visione del passato, le bombe che piovevano ora dal cielo distruggevano in poche notti di furia cieca secoli di faticoso lavoro lasciando sgomento nel presente e sconforto al pensiero del futuro.
I vivi soffrivano intanto pene atroci a decine di milioni e piangere anche sulle opere distrutte non fa qui che accompagnare il terribile ricordo delle vittime umane con contrappuntistico dolore.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale il 70% dell’Isola dei Musei era distrutta e moltissime opere disperse.
La tragedia fu più grande ed inimmaginabile di qualsiasi mostruosa creatura partorita dalla fantasia della Grecia antica, di qualsiasi millenaria filosofica lotta fra il bene ed il male.
La guerra lasciò a lungo i suoi segni sull’isola, ma i musei iniziarono a riaprire pian piano, uno dopo l’altro ed alla fine degli Anni ’50 molti pezzi tornarono dall’Unione Sovietica con grande clamore. Solo il Neues Museum si presentava ancora negli Anni ’80 come un rudere, con betulle che crescevano sui resti del tetto ed erbe rampicanti ovunque.
Esso era stato pesantemente bombardato in tre riprese. Nel 1943 bruciò la sua splendida scala, orgoglio di tutti grandi edifici pubblici del XIX° secolo ed assieme ad essa i giganteschi affreschi di oltre 75 metri di lunghezza che rappresentavano la storia dell’umanità nel suo svilupparsi in progressione: la Torre di Babele, Omero ed il fiorire della cultura greca, La Distruzione di Gerusalemme, e poi Gli Unni, I Crociati e La Riforma, il tutto descritto in fiduciosa hegeliana ascesa ed impermeabilizzato da una speciale nuova tecnica che prometteva di far durare le pitture al muro per sempre. Le bombe del ’43 bruciarono invece tutto. Poi vennero le incursioni del febbraio 1945 che annientarono l’ala nord-occidentale dell’edificio ed infine quelle conclusive di fine aprile dello stesso anno che, praticamente a guerra finita, completarono l’opera di distruzione. La galleria che legava simbolicamente e fisicamente l’Altes Museum al Neues Museum era saltata anch’essa per aria, assieme alla coraggiosa cupola sud e a gran parte, del resto, di tutto l’edificio.
Ancora nel 1987 festeggiò esso quindi così, come una rovina, assieme a tutta l’orgogliosa e d’altra parte per altri motivi altrettanto rovinosa RDT il 750° anno della fondazione della città di Berlino.
L’attenzione internazionale per Berlino, la riunificazione della Germania, il nuovo ottimistico slancio culturale, culminato con la proclamazione nel 1999 di tutta l’Isola dei Musei Patrimonio UNESCO produssero la sua messa in sicurezza prima, con nuovi pali di acciaio e cemento al posto di quelli in legno marcito a causa anche del terreno paludoso, e concorsi per il suo restauro poi. L’architetto britannico David Chipperfield si aggiudicò l’appalto finale ed il nuovo Nuovo Museo porta oggi quindi la sua firma. Fu scelto coraggiosamente di lasciare evidenti sull’edificio i segni del tempo, ovvero della devastante guerra e ciò è per noi oggi di grande interesse. Vediamo così le statue delle nicchie esterne rimaste decapitate, colonne ioniche mezze bianche e mezze nere di bruciatura, il fregio che rappresentava le metope del Partenone appeso dentro a pezzi, i buchi delle granate sui muri di mattoni grezzi e frammenti degli affreschi della storia dell’uomo rimasti così, briciole a memoria.
Il cuore del grandioso restauro si vede dunque oggi presso la monumentale scalinata. Niente più rosso pompeiano alle pareti, niente più ringhiere dorate, niente più anfore chiare e statue a contrastare col rosso dei muri, niente più affreschi giganti e niente più soffitto a cassettoni. O meglio, il soffitto è sempre a cassettoni, ma moderno, con potenti fari incastonati, il muro è di mattoni naturali, mentre degli affreschi spunta qua e là solo qualche pezzettino e si respira ovunque il grandissimo spazio unico fra i quatto piani raccordato dalla meravigliosa scala e dai finestroni giganti.
Con chiara, ariosa e serena sobrietà si è ripresentato al mondo nell’ottobre del 2009, risorgendo dalle sue tristi ceneri il nuovamente nuovo Nuovo Museo.