La Porta di Brandeburgo

Raffaela Rondini

 

 

Dopo tanto vagare per luoghi appartati il poeta ci conduce finalmente alla luce del sole, fra la gente, fra i fratelli turisti. Essere stati a Berlino senza poter raccontare di aver visto la celebre Porta di Brandeburgo non sta bene. E questo dev’essere noto finanche ai poeti che vagano per altri lidi. Persino durante la prima guerra mondiale i soldati degli eserciti uscivano dalle trincee durante la tregua per prendere un tè col nemico, scambiarsi marmellate e sigarette e fare quattro chiacchiere. I turisti, poi, riflette il poeta, non sono poi così nemici. E’ piuttosto questo mostro del turismo di massa che ci ha resi tutti troppo mobili e ci ha fatto dimenticare il vero motivo dei nostri spostamenti. Vogliamo catturare compulsivamente luoghi ed immagini e queste diventano pian piano nelle nostre coscienze numeri, oggetti un po’ tutti uguali, come quelli che si possono comprare al supermercato. Siamo seduti ad una panchina nella raccolta Pariser Platz, il salotto buono della città e guardiamo tutt’attorno i lati della piazza: l’Hotel Adlon, teatro del celebre romanzo di spionaggio di John Le Carré, l’Akademie der Kunst, l’ambasciata americana da un lato e quella francese dall’altro, i palazzi di banche ed assicurazioni. Ma com’è poi esattamente questa Porta di Brandeburgo che orginariamente avrebbe dovuto chiamarsi Porta della Pace? L’avremo vista in milioni di foto pubbliche, per non contare quelle private di amici e parenti che sono stati a Berlino. Osserviamo che è una specie di pronao di tempio greco con sei gigantesche colonne ioniche sormontate da un semplice capitello, un fregio con rilievi di centauromachie ed antiche battaglie, un felice timpano attico stilizzato a gradoni con uno zoccolo centrale sormontato dalla celeberrima quadriga dello scultore Johann Gottfried Schadow, ovvero quattro cavalli che tirano elegantemente un carro guidati da Eirene, Dea della Pace, che entra in città e con la mano sinistra tiene le redini e con la destra uno scettro con una croce celtica sormontata da un’elica. Il carro ha come sfondo il cielo ed è proprio per questo che è molto suggestivo. Il bronzo della scultura  si è ossidato in un verde acqua che assieme all’azzurro del cielo ed al bianco delle nuvole risulta incantevolmente etereo. I cavalli della quadriga sembrano guardare in basso i quadrupedi veri che tirano a coppie le carrozze per i turisti. I cavalli veri sono piccoli e robusti ed hanno i paraocchi, mentre quelli celesti sono fieri e slanciati purosangue liberi nello sguardo. E’ il poeta a parlare di cavalli, non a parole, ma con una serie mimica di gesti inequivocabili. Gli chiediamo se i cavalli veri abbiano mai incrociato lo sguardo di quelli della quadriga e lui ci risponde che sì, è capitato, ma di rado. I turisti circolano per la piazza a grumi o a grappoloni e sono tutti occupati a  fare foto. Sembra che non abbiano tempo di guardare la Porta e che si debbano affrettare a fotografarla per potersela poi guardare con comodo a casa per magari dire poi agli amici: questa è la Porta di Brandeburgo e questo sono io. Il fatto che le foto si facciano oggi per lo più allungando le braccia in avanti, fa sì che molti si ritrovino a circolare per Pariser Platz come se stessero facendo stretching per il cingolo scapolare.

Il poeta li conta annoiato, come si contano le pecore prima di addormentarsi: Uno zombie, due zombie, tre zombie, quattro zombie…cinquantasette zombie… Un tempo i turisti si scambiavano gesti di cortesia, racconta, si chiedevano timidamente gli uni con gli altri di scattarsi una foto, si rassicuravano vicendevolmente sul semplice funzionamento della propria macchina fotografica: ecco guardi, basta schiacciare qui, no, non si preoccupi dei piedi, la testa andrà benissimo, grazie. Ora, nell’epoca del digitale, nessuno chiede più niente a nessuno: protendono tutti le braccia in avanti reggendo queste tavolette rettangolari che non ho ancora capito se siano libri, telefoni, quaderni…Tutti zombie…

Ai lati della Porta di Brandeburgo ci sono ancora due tempietti ionici timpanati. Il poeta si porta con passo leggero a quello di sinistra e ci indica la Stanza del Silenzio. Un cartello, con le parole di Reiner Kurze dice: Entrate, qui potete stare in silenzio. E’ una saletta per la meditazione aperta alle persone di tutte le religioni e di tutte le provenienze ed assomiglia a quella che per i cattolici potrebbe essere una moderna cappella del Santissimo Sacramento. Se la piazza è piena ed assolata, questa moderna stanzetta quadrata dà un impressione di sereno vuoto e vuole rappresentare un invito alla tolleranza ed alla fratellanza fra gli uomini per estirpare una volta per tutte la violenza ed il razzismo. Essa invita a raccogliere le forze, a riflettere sui ricordi tristi, a meditare sulla speranza ed ad esprimere gratitudine per ciò che è avvenuto negli ultimi anni in questa città. La piccola sala è arredata con un cerchio di sedie e cuscini che guardano ad una parete bianca alla quale è appeso un arazzo scuro, opera di Ritta Hager con un disegno chiaro circolare al centro che parrebbe un sole, uno spirito santo, un dio, un chakra, un’illuminazione… Poggiata a terra sotto l’arazzo c’è una pietra grezza di forma piramidale. Le pareti, le tende ed il soffitto sono bianchi, il pavimento, lo zoccolo le sedie ed i cuscini sono scuri e ci sono fari che da un controsoffitto bianco illuminano tutt’intorno le tende, mentre un faro unico punta sull’arazzo. Una telecamera inquadra il silenzio ed il silenzio è talmente assoluto che si sentono ronzare le orecchie.

Quando si esce da questa piccola sala si vede Berlino, il mondo in tutt’altro modo. Ci si sente non solo rigenerati, ma è come se tutto potesse essere rivisto con occhi diversi, con un’altra prospettiva. Ciò che era prima pesante è diventato più leggero, come le stanche membra dopo un sonno ristoratore. La stanza del silenzio è ad oggi gratuita e meno male che il silenzio non ha ancora ricevuto una quantificazione economica come il tempo. Di estremamente positivo c’è anche il fatto che non solo non ci sono code per accedervi, ma anche per sedersi sulle sedie e sui cuscini non c’è affatto la ressa. Insomma è un silenzio doc, vero, puro ed è fantasticamente invisibile sotto gli occhi di tutti. Capiamo finalmente cosa intendeva il poeta quando voleva a tutti costi farci concludere il giro alla Porta di Brandeburgo. Ora che siamo carichi di energia ed estremamente ben disposti nei confronti dei fratelli turisti possiamo di nuovo uscire sulla piazza per gustarci appieno il mondo.

Trovare una panchina libera qui fuori potrebbe apparire impresa non facile, ma gli illuminati brillano anche per la loro fortuna. Il poeta si lancia felino su una appena liberata da un gruppo di giovani che si erano ammassati non si sa bene come tutti insieme sulla stretta seduta. E’ comodo avere un amico poeta invisibile in questi frangenti perché riesce ad arrivare insospettabilmente ovunque un secondo prima degli altri. Ci sediamo soddisfatti.

Excuse-me, can I? Arriva improvvisamente una giunonica turista ed indica il poeta. Sorridiamo al pensiero che voglia prenderselo sottobraccio e portarselo via, un po’ ci dispiace, ma il poeta è del mondo, ci mancherebbe. Prego! Rispondiamo entrambi con un sorriso. E quella sciagurata anziché accompagnarsi al vate ci si siede sopra con tutto il proprio corpo schiacciandolo.

6 anni fa